IAVADAPERISSO

ciao rosetta mi piacerebbe farti un’intervista qui su fb per inserirla nel mio blog sullo stile di quella a delfina  https://antonioprenna.wordpress.com/2011/08/23/delfina-a-ferragosto/

ciao antonio, dopo aver letto quella che più che intervista mi sembra una conversazione, penso sia una bella sfida… non so se sono all’altezza..ma proviamo.. mi faccio coraggio!

la prima domanda è naturalmente legata all’EFFIMERO&ETERNO in questo caso ovviamente riferita al tuo lavoro teatrale

in questi giorni il collegamento alla linea adsl da parte della telecom è andato in tilt!! ora sembra ripristinato.. quindi sono riuscita a leggere il tuo messaggio, ora spero di avere un po’ di tempo per permettere al mio cervello di riflettere?!..

vai pure

(la risposta il giorno dopo)

Mi chiedo il perché del “naturalmente”, ma questa risposta forse l’avrò io in seguito..
Il coraggio non è sufficiente per rispondere a questo stimolo di riflessione, si deve attingere all’ardimento o alla sfrontatezza.
Laura Curino, una maestra del teatro italiano, un giorno durante un laboratorio disse:”Noi attori se abbiamo qualcosa da dire la dobbiamo fare in vita, perché la nostra arte muore con noi”.
Forse non sono precisamente queste le parole pronunciate dalla Curino, ma riassumono chiaramente il senso del “qui” e “ora” di cui deve essere consapevolmente impregnato chi fa teatro.
O per citare un maestro ancor più riconosciuto come Shakespeare “La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore, che s’agita e si pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e che poi scompare nel silenzio.”
Il senso dell’eternità a noi attori non ci appartiene, forse ci possiamo illudere di conquistarla o ambire ad essa, ma noi siamo effimeri per eccellenza.
Che vita può avere uno spettacolo? La vita di qualche stagione quando va bene, poi si deve cambiare. Si è sempre proiettati in avanti e ciò che si è fatto rimane soltanto nel nostro ricordo. A volte capita di incontrare qualcuno che ti dice che ha visto un tuo vecchio lavoro e ti stupisci di questo e ti fa piacere perché sai che significa condividere un’emozione, che temevi sopita per sempre, significa ripercorrere un mondo immaginario, significa guardarsi negli occhi e scoprire in quello sguardo un granello di eternità.

il “naturalmente” si riferisce alla natura di queste “interviste” o almeno alla piega che voglio dar loro…se ne esce qualcosa di compiuto voglio proprio chiamarle così…effimero e e terno…suggestione che viene da una mia intervista a carolyn carlson https://antonioprenna.wordpress.com/2010/02/11/carlson/ effimero è il gesto sulla scena, eterna può esserela suggestione che provoca nello spettatore (ma anche su chi è in scena), sull’ombra-che-cammina mi colpisci al cuore…al cuore ramon alcuore, grida clint eastwood…

Se avessi citato “Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” mi sarei sentita banale! E comunque è il Bardo che colpisce sempre al cuore, Antonio, al cuore!
Accetto di pensare ad una eternità relativa, altrimenti il mio concetto di eterno è legato alla morte e limiterebbe ogni riflessione prospettica.
Il gesto che sulla scena appare effimero è in realtà il frutto di un lungo percorso di lavoro, di tentativi, di scarti, di limature, di prove. Ciò che rimane e si sceglie è una sintesi, una essenza e per questo a volte può lasciare una suggestione o una emozione che accetto di definire eterna, sia per chi lo ha compiuto, che per chi lo ha visto. Un ricordo dell’anima, e i ricordi sono le uniche cose che ci appartengono, mai dimenticarlo.

shakespeare è fondamento del canone occidentale per bloom…citando i sogni mi fai pensare che in fondo il teatro puà esser proprio quello…non cia vevo mai pensato… in effetti la visione di uno spettacolo è quasi come se si svolgesse in un angolo della mente, buio intorno (almeno la maggior parte delle volte e comunque in un teatro di solito è buio)…come sei arrivata al teatro in una zona depressa come la nostra? c’è stato un momento in cui l’hai deciso oppure è stato frutto del caso? (per me il giornalismo, la tv ecc è stato quasi per caso)

Sicuramente Shakespeare è il punto di riferimento per ogni operatore teatrale, di lui ci si può fidare e a lui ci si può affidare, per questo ancora oggi sopporta e sostiene tutte le interpretazioni, anche registiche, anche le più audaci.
Il buio in teatro è uno stato perenne, o meglio la luce artificiale. Quando si entra, per lavorarci, si perde la cognizione del tempo. Gran parte delle volte entri con il sole ed esci con la luna, o viceversa! Il tempo del teatro non è un tempo scandito dalla natura, si forse è il tempo del sogno o meglio della finzione.

Non so se è stato un caso avere una insegnante di musica che avendo colto in me una sensibilità particolare, scontrandosi con mia madre, decise di portarmi a 13 anni a vedere uno spettacolo, un balletto. Ne rimasi incantata. La mia insegnante avrebbe desiderato che facessi il conservatorio, ma io allora ero una sportiva..
Non so se è stato un caso ascoltare il mio nome pronunciato da un attore e aver sentito per la prima volta la bellezza della esse sonora e desiderare di parlare come lui..
Non so se è stato un caso innamorarsi di un attore-ballerino e iniziare a fare teatro per seguirlo..
Non so se è stato un caso ma ad un certo punto ho capito che non ne potevo più fare a meno.
“Ogni inizio è solo un seguito..” per continuare a fare citazioni, questa è della mia diletta Wislawa Szymborska.

(qualche tempo dopo)

“iavadaperissu” è uno spunto buono, assonanze, onomatopee, parole che si intrecciano con il reale,pomeriggiassolati, è già una “scena”

forse occorre la j iniziale (l’espressione iavadaperisso- io faccio qualche confusione di colline- è venuta fuori da un incontro quasi casuale al bar)

In realtà questa serie di parole, che mi piace pronunciare tutte legate, termina con una O nel mio dialetto. È protagonista di una serie di bigliettini che compongono una parete della mia casa, dove raccolgo termini che ascolto per strada o ritornano da una memoria antica. Insegnando, tra l’altro, dizione, ad un certo punto ho sentito la necessità di recuperare dei suoni “primordiali”, veraci, spontanei. Il dialetto è la lingua delle ferite, dicono. Sicuramente è la lingua dell’istinto: quando litighiamo sono queste le parole che usiamo, hanno più ritmo, sono più ficcanti. Anche in teatro mi è capitato di lavorare con grandi registi che chiedevano di sperimentare un personaggio facendolo parlare con il nostro dialetto. Si ritrova una verità, una autenticità, come un togliere delle strutture che il tempo ha consolidato, è come recuperare una purezza da fanciullo. E poi il ritmo, il tempo comico naturale del dialetto. L’italiano è ancora lontano dal conquistarlo.

mi piacerebbe se riuscissi a scrivere -so che può apparire “stupido”-cosa vedi quando sei in scena, ti rivolgi a qualcuno in particolare che riconosci in platea oppure la mente è vuota di questo e solo occupata da parole che s’accavallano come fossero vita e quella è la tua vita in quel momento ma è “solo” una rappresentazione di altre vite (nel tuo caso joyce e sibilla), le parole magari ti scorrono come in uno dei video di sibilla o le vedi disegnate addosso? (sto improvvisando

Mi piace questa riflessione,  mi fa tornare in mente tanti spettacoli diversi, tanti frammenti, immagini, ricordi, emozioni, paure e anche grandi risate. Intanto quando si è in scena si vede tutto, c’è solitamente un livello di ascolto molto alto, tutto deve essere tenuto sotto controllo e insieme ci deve essere una sorta di perdizione. È come se ci fossero due entità, il personaggio e l’attore. Solo a volte avviene la magia che le due entità diventino corpo unico. Più spesso accade che l’attore sia una sorta di tutor, mettendo a disposizione del personaggio il proprio corpo e la propria voce, ma proteggendolo, avendo cura di lui, ricordandogli le tappe da percorrere, i paletti definiti insieme, per il resto il vero capo, la mente suprema, è il personaggio.
La prima volta che ho recitato al Teatro delle Muse ad Ancona, insieme a Neri Marcorè, il teatro era al completo, 1200/1500 persone. Nel momento in cui dovevo fare il mio monologo sono avanzata e ho guardato il pubblico, platea e tre gallerie, tutte piene, ho avuto una sospensione del respiro, allora la Rosetta attrice-tutor ha offuscato la vista e ha permesso al suo personaggio di vivere quel momento senza fargli sentire paura.
Mi è capitato anche più volte di interpretare dei personaggi che agivano tra il pubblico, quindi necessariamente dovevo essere pronta a tutte le variabili possibili, hai un canovaccio ma comanda l’improvvisazione. In queste occasioni il personaggio va a briglia sciolta, può essere un cavallo impazzito, rischia la perdizione totale e in questi momenti il livello d’”ascolto” dell’attore deve essere estremamente elevato, deve regalare al suo personaggio il dono dell’equilibrio. In questi momenti le parole nascono davvero, sono vita di quel momento, senza mediazioni. Anche dei piccoli “incidenti” si prestano alla vera vita teatrale: alla prima dello spettacolo LA FAVOLA DI CATERINA, uno dei lavori più faticosi e insieme più esilaranti che abbia mai interpretato, il mio compagno di scena, Luigi Moretti, cade accidentalmente nel baule dove eravamo seduti, mi giro e lo vedo incastrato lì dentro, con le ginocchia praticamente in bocca, l’attrice Rosetta non ha potuto fare altro che iniziare a ridere convulsamente, senza neanche riuscire a prendere fiato, (ora che lo sto ripensando sto ridendo ancora!!!), è stata necessaria tutta la freddezza del mio collega per riprendere la scena. Ma il tutto è apparso talmente vero, e lo era!, che il pubblico ha iniziato a ridere con noi, tanto da farci decidere a tenere, anche nelle repliche successive, quella caduta accidentale che è rimasta una dei momenti più divertenti dello spettacolo.
Una volta invece ho vissuto la situazione diametralmente opposta. Con la compagnia giovani del Teatro Stabile delle Marche eravamo a Milano e stavamo rappresentando uno spettacolo sull’olocausto. Prima di partire il nostro regista aveva ricevuto delle minacce telefoniche e quindi aveva allertato le forze dell’ordine che avevano ritenuto opportuno presidiare il teatro mentre c’era la rappresentazione, procurando a noi attori, gli unici che sapevano, un certo allarme. Eravamo sempre in scena e gran parte del tempo dovevamo recitare fissando dei punti precisi verso il pubblico, ma durante quella serie di rappresentazioni la mia attenzione, ma anche quella dei miei colleghi, era tutta dedicata a cercare di cogliere qualche movimento sospetto o rumori inopportuni. Le parole scorrevano in automatico, non c’era nessun collegamento con il pensiero che era decisamente altrove, l’attore in quella situazione aveva relegato il personaggio a mera marionetta esecutrice.
Amo molto la relazione diretta con il pubblico, il poterlo guardare negli occhi, potermi rivolgere chiaramente a lui, quasi aspettando che qualcuno ti dia una risposta o ti faccia una domanda. Crea uno stato di coinvolgimento reciproco che porta un altissimo livello di attenzione e di ascolto, ritorna ancora questa parola per me fondamentale sia nel teatro che nella vita.
Scardina anche un po’ la finzione teatrale e ribadisce quell’essere presente, quell’essere qui e ora, che l’attore deve ricordare di professare nella scena e nella vita.

come avviene la scelta di joyce oppure di dolores (vado sempre a pregare sulla sua tomba a treia)o di sibilla

Anche io sono andata a trovare Dolores al cimitero di Treia,  recentemente a San Ginesio (MC) abbiamo fatto una sorta di processione laica per ricordarla. San Ginesio è il comune dove lei insegnò per circa 5 anni e al quale ha dedicato il romanzo CAMPANE A SAN GIOCONDO, pensa un libro, tra l’altro piacevolissimo, scritto nel 1963 e pubblicato solo nel 2009!

Il mio percorso teatrale nel mondo femminile in realtà è iniziato ancora più lontano nel tempo, con Paolina Leopardi, sorella di Giacomo. Essendo di origine marchigiana sono sempre stata attenta e incuriosita dalla cultura del mio territorio.
Scoprii per caso che Giacomo aveva una sorella che con lui aveva condiviso studi e formazione, ma lei in quanto donna, aveva poi condotto una vita da reclusa, malgrado una fortissima sensibilità e una cultura ricchissima.
Più tardi ho incrociato Dolores Prato, altro personaggio travagliato e sofferente, sempre legato alle Marche. Da lì non ho più lasciato che il caso mi indicasse un percorso ma ho scelto di affrontare le “donne di marca”, prima Joyce Lussu e ora Sibilla Aleramo. Joyce che ha amato profondamente la mia regione, pur essendo una cittadina del mondo e Sibilla che invece da questa regione, anzi proprio dal paese dove io sono nata, è scappata. Proprio per questo, Sibilla più delle altre, mi ha sempre accompagnato, ma ammetto di non aver mai, prima, approfondito la sua conoscenza, se non attraverso il romanzo UNA DONNA e qualche poesia.
La molla è stata la visione di una mostra, a lei dedicata, curata da Alba Morino, nella quale ho scoperto la sua complessità e la sua ricchezza, il suo essere anticipatrice e anche il fascino delle sue contraddizioni, che la rendono molto contemporanea e soprattutto molto uman

Rosetta Martellini sii diploma alla scuola di formazione professionale per attori “Sangallo” e studia sotto la guida del maestro F.Ferrarone del Teatro Stabile di Torino, prosegue la sua formazione seguendo laboratori sia di teatro (Laura Curino, Renata Palminiello, Valerio Binasco, Danio Manfredini, Giampiero Solari, Giles Smith del Royal National Theatre) che di danza contemporanea (Cristiane Glick della compagnia Maguy Marin, Adriana Borriello, Andy Peck, Annabelle Gamson, Raffaella Giordano, Ashley Roland )

Spettacoli: “Capelli al vento” sulla vita e la poesia di Joyce Lussu per il Teatro Stabile delle Marche, in collaborazione con il musicista-compositore Andrea Mei, con il quale ha già realizzato nel 2007 “Rosa violata”, sulla violenza contro le donne. SONO STATA AMORE dedicato a Sibilla Aleramo..

http://antonioprenna.tumblr.com/post/30385784759/rosetta-nata-pueta-no-santa-rosetta-laltra