Per decidere di comprare un libro, aprilo a pag. 68

 

 

Premessa necessaria non richiesta. Attenzione contiene spam. La parola è carne in scatola e la memoria è fatta di messaggi non richiesti. Dentro la galleria Scipione di Macerata (vedi foto) leggevo 68 al contrario e usciva l’89. Maraviglia. Il mondo rovesciato. Dal mio paese lungofiume prendevo l’autobus numero 9 per arrivare al Gran Palazzo Neoclassico. Magia dei numeri potenti che si rincorrono forsennati da allora. Le colonne sulla facciata di quell’edificio già solenne ancora raccontano l’illuminismo, serpente ideale di un’epoca dimenticata. Il pubblico uso della propria ragione, libero in ogni tempo. Il Primo Grado di Scuola Media significava scavalcare la collina e capitare su un pendio a ridosso dei bastioni che si trova uguale a Carcassone in Occitania. I lunghi corridoi, sul Grande Centro della corte interna aperta al cielo, erano un punto di fuga. Durante le ore di matematica pensavo di correrci intorno. Calcolavo il perimetro a passi irregolari. Contavo a mente i passi immaginari. Numeri tutto attorno che combinarli è importante, per non dimenticare l’età dell’oro.

Non è vero, non è vero, che veniamo sulla terra per vivere. Oh questa è pura poesia degli aztechi. Età dell’oro. Tv in bianco e nero molto contrastato. Memoria di un documentario di von Hagen sui precolombiani, visto nel 1964 (vedi screenshot del Radiocorriere, primo numero di marzo, prima metà dei sessanta).

Veniamo sulla terra solo per dormire. Solo per sognare. Continua la poesia. Il nostro corpo è un fiore. Niente numeri stavolta. Qui è tutto pieno di fiori di fiori di fiori pensanti e solo quando i fiori appassiscono – ma sono belli anche secchi e accartocciati – i numeri tornano al gioco del rincorrersi. Il nove salta nell’otto che ritorna sempre all’uno. Il principio di tutto. Il sei dominante. Sull’autobus – torniamo alla realtà – ogni ticchettio ricordava le bombe di Milano e di Roma. Li ho ascoltati con attenzione in un giorno di sole, mentre l’autobus percorreva la strada delle mura. Tick tick tick. Forse era l’anno dopo dell’ 89 rovesciato. Mesi confusi nei confusi desideri. Numero Nove Perseverante dentro la Revolution number nine, rumore della vita futura (ascolta il Disco Bianco dei Beatles e capisci subito il senso di quei rumori). Numero Nove Persistente. Un sei rovesciato che contiene un frammento di futuro. L’arancia a orologeria, frutto acido e tragico, che crea solo confusione. 1967, 1966, 1971, sono anni tutti uguali di rivoluzioni. L’estate dei carrarmati di Praga. Una voce agitata, dal transistor sul frigo della casa di Ziu su a Macerata, raccontava il soviet aggressivo, contenendo già il fuoco del gennaio successivo. Un nove rovesciato. Si festeggiava un compleanno quel giorno di agosto.


Avevo dodici anni. Niente per capire il freddo abbraccio dell’istinto di morte. Quindi ora diventa difficile spiegarmi il gusto di tracciare allora svastiche buddhiste seguite dalla parola WAPITI. Quella sottospecie di cervo canadese. Fermo ieratico sull’orizzonte salvatico, che ti guarda con occhi primordiali. E fissa proprio te, bestia tra tutti gli animali.

Cervus Elaphus, il nome scientifico, migrante dall’Oregon alla Manciuria, senza mai capire la vera provenienza, quale la terra primigenia, che direzione avesse preso da dove per dove la prima volta, quando il primo cervo ha deciso di spostarsi. L’istinto di morte che galleggia nei recessi del remote control tra piume e polipi e l’immagine di una signorina con i capelli corti (vedi foto).

In città, la città di Scipione (vedi stessa foto), l’università era stata occupata nel 68 con grande scandalo. Capelli lunghi dei maschi, chitarre, niente cravatte, tante sigarette, notti proibite. Tutto era proibito. Nessun paradiso intorno.

Accanto alle svastiche disegnavo un teschio. Il teschio era l’isola del tesoro e anche la misteriosa casa dell’Uomo Mascherato. La grotta del teschio, dove sedeva su un trono di pietra, antro che immaginavo secco di sabbia rossa. Quando l’ombra-che-cammina tirava pugni, il suo anello lasciava il segno del teschio sulle guance. Così alla fiera di fine agosto nella piccola città cercavo sempre l’anello con la morte scolpita. Lo volevo senza trovarlo mai.

I pomeriggi li vivevo il più possibile sul fiume come Tom Sawyer. Una notte d’estate qualcuno cucinò le rane appena catturate. L’isola del tesoro l’avevo guardata alla televisione negli stessi giorni degli imperi del sole e mentre nonna moriva, andava in onda una puntata cruciale. Mi chiamarono con la voce rotta, io non capivo perché non potessi vedere la tv. Era stato solo quattro anni prima. Due terzi di vita fino a quel punto. Il mondo cambiava in fretta. Io cambiavo in fretta. Il mondo anche se cambiava in fretta rimaneva lo stesso in bianco e nero. Il Vietnam restava in bianco e nero. Nella piccola città andai al teatro un pomeriggio. C’era Raoul Follerau. Si agitava corpulento sul palco. Parlava del Mato Grosso. Forse era prima. Nel 1967, che non si riesce quasi a leggere al contrario, tanto è lontano il settimo millennio. Settemila seicento novantuno. Chissà se anno bisestile.

A new era in the class struggle is beginning. Nel 1964 (che fa sei più otto seguendo nessuna logica) Mario Tronti scriveva di Lenin in Inghilterra, lo rileggo ora sulla rivista Micromega, come fosse leggere il vecchio Voltaire, nel numero dedicato all’anno di cui qui a futura memoria e lontano da dove celebriamo il cinquantesimo. Lo rileggo a tratti anche in inglese. This is not a rhetorical proposition. Nor is it intended just to restore our confidence.

L’equilibrio sembrava solido, bisognava lavorare con pazienza sull’esplosivo materiale sociale della classe operaia che esploderà davvero. La solita storia. Posso impararla a memoria. Finché lo strumento di lavoro rimane, nel senso proprio della parola, strumento di lavoro, così come, accolto e inserito dal capitale nel suo processo di valorizzazione, subisce solo una mutazione formale perchè non appare più solo – dal suo lato materiale – come mezzo di lavoro, ma anche come un modo particolare di esistenza del capitale determinato dal processo complessivo di quest’ultimo: come capitale fisso.

Capitale fisso. In bilico sull’abisso. Voltaire avrebbe invece voluto svelare l’essenza delle cose con un libro di filosofia, pubblicato dal suo personaggio Micromega. Un libro nel libro. Un altro gioco di specchi.

A Parigi, all’Accademia delle Scienze; quando il segretario ebbe il volume di Micromega in mano, sfogliandolo vide che le sue pagine erano tutte bianche. Ah! disse, mi pareva bene!

L’autobus numero 9, per dirla tutta, arrivava fin su alla piazza principale della piccola città. I cinema erano tutti in centro.

Nel 1968 ho visto il 2001 di Kubrick – non finiva mai- al cinema Corso che adesso di sicuro è pieno di polvere. Forse era al cinema Cairoli. La rivoluzione confonde le idee.

Ten years after quando nei pomeriggi attoniti passeggiavo molto tra le vie nel centro di Roma, mi perdevo spesso tra il Pantheon e via del Corso.

Una mattina a Piazza Venezia c’era chi gridava Violenza Proletaria, facendo il segno della pistola con le dita

e in un cupo pomeriggio del maggio più selvaggio, andammo a cogliere i fiori lungo i rivi per l’Aldo Morto.

Fifty years after, che richiama ancora Woodstock, il cerchio si chiude, Macerata diventa la Frontiera. Gonna take me back, I’ll take her where I belong. Cruda e dura frontiera di pistole manco fosse l’Arizona del sole a picco.

[Gennaio- Aprile 2018]