Buck Mulligan dall’alto delle scale intona l’introibo
mentre un Buddha indifferente con gli occhi socchiusi
lo ascolta dire a voce alta : “Vieni su, Kinch!”.
La scena si ripete sempre uguale.
E’ un giorno di metà giugno a Dublino.
Eternamente il 16 giugno.
Ti chiedi perchè quando apri l’Ulisse di Joyce
ti viene sempre voglia di mangiare rognoni a colazione.
Ho un conto in sospeso con Pina
almeno dall’estate 1977
tre anni dopo appena gli inizi del Tanztheater
sarebbe stata quasi un’anteprima
quel pomeriggio tardo
poco sopra il St James’s Park all’ Ica
(verificare su google se ancora in attività – nel 2005 era ancora lì e con rammarico gettai uno sguardo verso la facciata)
l’avevo letto su Time Out
sembrava il nome di un gruppo punk PINA BAUSCH l’epoca era quella
sul Tamigi i Sex Pistols avevano già seminato chaos cantando la scarsa voglia di futuro
uno però è ancora lì a curiosare tra gli scarafaggi o stavano per (controllare su google)
mi aggiro per l’atrio provo a chiedere alla cassa
lo spettacolo è sold out
appuntamento posticipato
ma non lo sapevo ancora
tornando verso il laghetto
a gettar molliche alle anatre
appuntamento posticipato a un inizio pomeriggio
ora di pranzo primi metà anni 90
gli ultimi del secolo e del millennio
Vittoria Ottolenghi presenta la danza di Pina
Il lamento dell’imperatrice Wuppertal
tram sospesi traffico danze materiche terra acqua aria musiche mai udite
Pina anni prima l’avevo intravista sulla nave di Fellini
e nelle spagnole magiche almadovoriane atmosfere crepuscolari
ne avevo poi letto
“ogni volta è come se ci fosse un grande conflitto tra quello che vuoi rendere chiaro e quello dietro a cui vuoi nasconderti”
frammenti dell’imperatrice finiscono in qualche mio montaggio matto
combinando Pound & Ginsberg & la ragazza vestita di fiori leggera sopra il ponte sferzata dal vento sorridente & sequenze di Pulp Fiction
l’epoca era sempre quella
Die Klage der Kaiserin usciva nel 1989
ancora niente youtube occorreva affidarsi alla scarsa memoria del vhs
ma questo solo cinque anni dopo almeno e comunque le epoche si intrecciano fino a un altro primo pomeriggio stavolta di novembre
cinema Odeon di Bologna inizi via Mascarella dietro l’Accademia Pina in 3d di Wenders
il conto forse non più sospeso
ma per quanto i titoli galleggino tanto che occorrerebbe riscriverli in altro modo
ripensarli i titoli
e i corpi si distribuiscano sullo schermo
con gesti quotidiani mani suppliche paure baci piccole corse o impossibilità di movimento staticità sguardi diretti nell’occhio della camera
i danzatori di Pina e di Wenders, Pina non c’è già più, è un fantasma di celluloide anche se il cinema è digitale, liquido
raccontano così bene gli spettacoli -bei passaggi ma non tutti anche per facili dissolvenze-
nonostante lo stupore della danza
a occhi ciusi
ma il cinema non può restituirmi la scena di quello che mi sono perso a Londra nell’agosto 1977
(controllare su google).
In cammino i sensi all’erta Ascolto i grilli, mi stupisco di sentirli a quest’ora serale L’odore dell’erba tagliata è penetrante Evoca le estati in campagna lungofiume viali di pioppi pesca con le mani bagni nell’acqua corrente Vedo un gatto rannicchiato nel campo ai margini della strada sterrata Raccolgo un sasso – non si sa mai si trattasse d’un gatto selvatico ma non ne ha L’aria Impugno il sasso con fare minaccioso e penso che la natura può essere spesso crudele La natura non accetta le regole e le consuetudini umane Lancio il sasso lontano dal gatto Non voglio fargli male, che diamine Versi uccelleschi provengono da ogni dove Il rumore dei passi si raddoppia in una specie di eco, in prossimità del dosso Mi inoltro nel bosco prendendo una strada secondaria rispetto a quella asfaltata Raggiungo presto un chiaro del bosco Una lichtung, un’apertura di luce, come m’insegna Mastro Heidegger Come pure m’insegna -sorella nel cammino -Maria Zambrano I sensi all’erta, annuso l’aria, mi guardo intorno, ascolto l’assenza di rumori meccanici Continuando per questa strada chissà dove arrivo Vedo un passero sui fili della luce Uno solo, fischiettare la sua canzone alla sera Tanti insieme appollaiati sui fili diritti farebbero una nota musicale su una partitura La terra è umida ma il temporale posso evitarlo per ora Il temporale arriverà mentre inizio a scrivere (proprio poco fa) a proposito de Il pensiero che si forma camminando Pensiero puro slegato da tutto, dalle contingenze, legato solo ai sensi all’erta Non ci sono elaborazioni successive alla formazione del pensiero periclitante Che avviene nell’atto stesso del mettere un passo appresso all’altro Accanto alla locanda dove poco dopo andrò a mangiare odori di cucina lontani Mangerò verdure cotte e il ripieno di un animale accompagnato da finocchio selvatico crudo La mia bevanda sarà una birra fresca che consumerò a piccoli sorsi facendomela bastare Fino alla fine del pasto veloce, run run run fino alla sazietà Dopo il cammino una doccia calda L’acqua scende copiosa sul taglio di capelli recenti Ma sono ancora –la doccia calda verrà dopo – sul tragitto, un circuito immaginario, vizioso, tutto mentale, creato Improvvisando una traiettoria Scendo per questo tratturo (Ma so che non si chiama tratturo e sicuramente i contadini di qui non lo chiamano così) Sul crinale della collina, evito sul ritorno la doppia curva -con frana- dell’andata La strada tra i campi mi riporterà Seguendo un training che superi la mezzora Al punto di partenza di questo Circuito immaginario Verso il limite dei trentacinque minuti (qui esiste solo il tempo di percorrenza Non il Percorso) riprendo la strada principale Incrocio un paio di carabinieri fermi ad un incrocio strategico per i loro controlli di routine Li saluto con un buonasera Quello che impugna il mitra mi risponde con un cenno del capo L’altro che scrive sul cofano della camionetta le targhe delle auto fermate e l’orario, mi dice salve Percorro in salita il viale del cimitero con tutti quei foscoliani cipressi Davanti al cimitero mi segno e prego a mani giunte guardando verso le tombe che si scorgono Alzando lo sguardo sul muretto – luogo circoscritto di eternità e infinito nella finitezza della carne Evito di entrare nel luogo santo dove i morti sono diventati uomini e donne tutti uguali Il cancello cigolerebbe in modo sinistro come nelle migliori situazioni lovecraftiane Vorrei lasciare nell’edificio chiuso che funge da chiesuola una fotocopia che ritrae mio padre sorridente Nel giorno della Cresima della nipote grande e che sta sulla sua tomba Lontano da qui, verso sud Lascio la fotocopia sempre nel portafoglio Prima o poi la metterò insieme alle immaginette dei cari morti altrui sulll’altarino nell’edificio Dentro il cimitero così saprò per chi recitare le mie preghiere Anche se i morti sono tutti uguali perchè nella morte diventiamo tutti uguali Voglio dire potrei pregare rivolto a qualsiasi tomba anche a quella Lucia che sta in alto passando Vedo la sua tomba costeggiando il muretto del camposanto Sarebbe come pregare per tutti i miei morti, soprattutto per mio padre Vorrei questo qualcosa in più, un’immaginetta iconica cui rivolgermi Ormai sono vicino alla fine del mio giro Mi tolgo le scarpette comode e le lascio nel bagagliaio della macchina All’andata ho incrociato solo tre macchine Al ritorno -sono sicuro- qualcuno mi ha visto e riconosciuto e prima o poi me lo dirà Ti ho visto da quelle parti, eri proprio tu Si, sto seguendo un mio training che comprende cammino e pensiero che si forma In cammino I sensi all’erta, gli dirò
…
I morti parlano ai vivi attraverso enigmi dentro sistemi comunicativi anche eterogenei certamente eterodossi comunque estranei al comune sentire, Devo porgere l’orecchio con attenzione, sporgermi persino, il corpo si sbilancia, porre una mano a conchiglia sul lato del capo più propenso a sentire – attento pervicace ascoltatore che non perde una battuta, sempre informato, costantemente in linea on line –propenso a captarli gli enigmi raccontati con essoterico richiamo Quasi come una poesia ma non proprio con metodo poietico Sono come vasi comunicanti i liquidi raggiungono lo stesso livello così i messaggi passano dai morti a me cercando un equilibrio nella visione del passaggio d’un aereo in una coincidenza, un refuso, una parola che non riesci proprio a dire in una frase captata nella programmazione televisiva di una docu-fiction protagonista Tupac Shakur che dice – a me è capitato davvero – se dopo la morte non c’è niente il problema non si pone alla domanda che fonda il dire stesso dell’essere si contrappone negativismo e debolezza di pensiero forse assenza di soggetto se c’è qualcosa – continua Tupac – qualcosa di spirituale allora saremo angeli dopo la morte L’espressione Che voglio chiamare sentenza addirittura aforisma mi apparteneva già di suo Avevo usato le stesse espressioni – ma proprio le stesse – sul balcone di casa fumando un antico toscano
…
Questo ho continuato a mischiare all’odore dei campi nelle disorganiche congetture del cammino lungo un Percorso nuovo che ha toccato i confini della Repubblica Titanica, la mia mano, si, ha toccato il monolite posto lì, sul limite riconosciuto, nel lontano 1911 e ho visto la prospettiva della linea ideale che separa le competenze territoriali e il diritto del sangue e della terra Il Percorso ha conosciuto l’erba tagliata, cani abbaiavano in lontananza, la giornata di giugno era già più corta di quella precedente, quella dell’ultimo solstizio dei miei quaranta anni
apro gli occhi molto presto nella mia camera da ragazzo
ventiquattro anni che non dormo nella vecchia casa familiare
siamo i primi a arrivare al reparto oculistico
giornata particolare abbozzata la sera prima
nello sprol.h.o.o.q.uio di paolo nori al teatro della filarmonica
che è la seconda volta che entro lì dentro
nel 1975 su quel palco c’erano terry riley la monte young e l’indiano prandit pran nath accovacciato nell’oceano sonoro del suo sitar
trovo su internet un’immagine di quel posto e vedo lezioni di tango
nel salone del teatro di palazzo bourbon dal monte nella prestigiosa sede della società filarmonico-drammatica di macerata di via gramsci grazie alla disponibilità data dal consiglio direttivo nella persona del presidente
sulle sedie scomode del corridoio d’ospedale leggo quotidiani e alfabeta2
osservo le altre persone cerco con gli occhi la luce del giorno che fatica a imporsi
vedo una signora fin troppo loquace il marito silenzioso le infermiere
la barista che guarda altrove mentre mi prepara il cappuccino esco a fumare ogni tanto
incontro una mia cugina che dice si corre per ospedali de sti tempi parliamo di futuro dei figli di parma del ris di architettura e di legami parentali
parliamo ancora in un secondo incontro casuale in tarda mattinata
invece la pioggia della sera prima diventa già un ricordo e nostalgia e ferruginoso inarcare del corpo alla ricerca dell’impossibile equilibrio tra l’esserci e l’ansia di mostrare di sé la parte che interessa solo te è vero il pubblico sei tu che t’ascolti
a cena una pizza nei locali assai fumosi attorno a quel 1975 dove i congiurati del manifesto si riunivano torturando un grande tavolo
di scritte aggressive vogliamo tutto il pane e anche le rose l’oriente è rosso
si parla di sibilla aleramo di libertà e io ribatto dell’unica vera libertà che è il denaro
si costeggia poi nella pioggia il palazzo del mutilato
ripenso all’ex- upim pieno di editoria locale che ho attraversato nel pomeriggio quell’ambiente che era la modernità della merce
e sguish salto nel tempo sto per raggiungere di sotto il reparto giocattoli
per acquistare finalmente una jaguarmatic la pistola col giaguaro in rilievo sull’impugnatura che bastava un click per inserire la sicura bloccante il grilletto
sei sotto tiro non fare un passo chiudi il becco bastardo sbloccare poi la sicura per sparare sparare sparare a vuoto
ammazzando nella mente spie banditi poliziotti e mentre la vecchia madre si opera mi avvio verso i cappuccini proprio sopra la stazione le porte spesso varcate per prendere il treno della notte verso roma
la littorina che vola nella notte via sforzacosta tolentino albacina fabriano cambio a fabriano stazione di fabriano poi foligno orvieto terni orte arrivo in capitale primo mattino
in chiesa accendo un lumino a padre pio di quelli elettrici che basta infilarli su quel qualcosa che spunta da sotto minaccioso perché s’accendano di funebre luce tremolante
incrocio un frate vorrei chiedergli dov’è sepolto alessandro
l’assassino di marietta gli dico solo buongiorno sui muri occhieggia giovannino guareschi dovevo portarmi la macchina fotografica dimenticherò tutto
l’aria è fresca entro ancora in ospedale
alla cassa del parcheggio una zingara continua a elemosinare spicci
la vecchia madre è di spalle nella sala medicazioni sta parlando di quando ci sono i figli e di situazioni limite di delitti e di interessi superiori mi s’avvicina bendata all’occhio che non sarà più opaco e che sarà inumidito di collirii a intervalli regolari
un integratore accentuerà il lacrimarsi necessario
l’umidità del commuoversi stabilito per prescrizione medica
s’esce tardi da colà con mille raccomandazioni si torna nella casa familiare
la tv spenta mentre si pranza il vino forse sa di vino
m’addormento nella camera da ragazzo sogno di roncisvalle
di draghi che sbuffano via vapori mi sveglio sudato e la voglia di recuperare un libro di cui parlava un altro mio cugino la sera prima davanti alla filarmonica
le macchine passavano radenti io cercavo di togliergli via i tatuaggi dal braccio e dicevo guarda sei tutto sporco il libro si chiama scatti in movimento
parla di quel passato così spesso qui evocato dalla metropoli alla provincia comuni hippy festival di giovani proletari pugni chiusi ritagli di giornali
locali incidenti alla mensa universitaria di macerata i diciottenni sono duemila anche nel vangelo si parla di divorzio il cantagiro sfilerà per le mura
era il 1966 avevo dieci anni
i corvi cantavano un ragazzo di strada gianni morandi notte di ferragosto
il giorno di ferie con mamma finisce nel tramonto rosso van gogh
delle ondulazioni collinari sullo sfondo il monte san vicino che si vede dappertutto da queste parti.